“ma guarda questa che cerebrolesa oh!” *
Quanti di voi lo hanno pensato almeno una volta, di fronte all’ennesimo autoscatto con la bocca-a-culo-di-gallina (quella che gli anglomuniti categorizzano come come #duckface) che la vicina di casa/collega/sorella/conoscente/ex fidanzata si è fatta e ha prontamente postato su facebook?
Beh, dovete ricredervi. Non tanto per i like e i commenti entusiastici che questo genere di foto riscuote dalla componente più segaiola e sociopatica del web, quanto piuttosto perché quello che sembrava un inutile passatempo per narcisisti un po’ semplici si è imposto come un comportamento sociale caratteristico della nostra epoca, tanto che è stato coniato un vocabolo nuovo per descrivere l’azione senza offendere chi la pratica: “selfie”.
Nell’era del self-branding, il selfie è un’abitudine che ha contagiato tutti: politici, papi (quello cristiano e quello erotomane), celebrity, Ai Weiwei, Dudù, la nonna e i propri conoscenti, in qualunque latitudine terrestre essi si trovino. Attualmente ci sono 90 milioni di fotografie su Instagram taggate #me.
Ebbe ne si, c’è anche chi s’è sparato un #selfie nello spazio.
Si è scomodato persino il Time, che l’ha sbattuto in copertina erigendolo a simbolo della “me me me generation”, ovvero la generazione dei “millenials”, accusata di narcisismo, egoismo, pigrizia e superficialità (di cui fate parte anche voi che leggete, considerando che comprende i nati tra il 1980 e il 2000).
E la tecnologia naturalmente si è adeguata: non è un caso infatti che gli smartphone abbiano iniziato ad implementare la front-facing camera, che permette di autoritrarsi senza ricorrere ad arrischiati dispositivi e di riprendersi la faccia anziché il deretano (anche se spesso questo problema non sussiste).
L’esplosione virale del selfie ha colpito anche l’immaginario degli artisti. Qualche settimana fa, Moving Image, la fiera d’arte di Londra specializzata in videoarte, ha presentato una mostra tutta dedicata al tema: “National #Selfie Portrait Gallery”, progetto ideato da due giovanissimi curatori che riuniva brevi video (durata massima 30 secondi) realizzati per l’occasione da 19 artisti internazionali. In un’intervista, i due hanno spiegato: “i selfie non sono sempre arte, ma queste opere d’arte sono sicuramente dei selfie”. Chiaro, no?
Oltremanica, il fotografo americano Patrick Specchi ha invitato i visitatori della sua mostra ad entrare in un ascensore di un condominio di Brooklyn e scendere fino al seminterrato. All’apertura delle porte, un grande specchio accoglieva il pubblico, invitandolo a scattarsi un selfie con una macchina fotografica, proprio nell’atto di specchiarsi. Gli scatti prodotti sono diventati così il materiale artistico di “Art in translation: selfie, the 20/20 experience”, esposta con successo al MOMA.
Il tema del rapporto fra arte e selfie è anche al centro della call appena lanciata dall’artista e ricercatore americano Patrick Lichty: “Selfies and the New Photography. 50 Artists/50 Selfies”: fino al 14 gennaio è possibile partecipare al progetto con un contributo fotografico oppure con un saggio sul tema.
Quindi che aspettate? Date libero sfogo alle perversioni narcisistiche ed entrate a far parte anche voi dell’iconosfera contemporanea: ci sarà sicuramente una vicina di casa in grado di spiegarvi tutti i passaggi da compiere per una bocca-a-culo-di-gallina a opera d’arte.
* ci scusiamo preventivamente con gli amici cerebrolesi che leggono assiduamente la NERTO/zine e che anzi salutiamo con il consueto love.