Giorno Uno – Giovedì 27 giugno 2013
Piazza San Domenico, ore 19.00. Shackleton, insieme a 42 tamburi della Quintana di Foligno, presenta una composizione inedita di genere medieval-techno (ma con chiari influssi black death e savonarola sound) dal titolo “Mi dispiace tesoro, non esiste alcun paradiso dei cavalli”. Questa cosa è successa sul serio (+/-), e non solo ci sono foto a testimoniarlo, ma si colloca invero in quella genealogia di squilibrio mentale degli organizzatori, che ha portato in questi anni a far interagire i Mouse on Mars con le campane della cattedrale di Foligno, il giapponese Oorutaichi con il coro dell’oratorio di Bevagna e un gruppo di maturi ballerini di hully gully (dall’impeccabile splendore geometrico) con le musiche di Populous e Dj Sprinkles.
Questo è il Dancity, un festival che non solo è riuscito a diventare in otto anni il più importante evento di musica elettronica (dai) in Italia (complice ovviamente la scomparsa di Dissonanze), ma che ha fatto del legame con il territorio qualcosa che va oltre la cazzatona pubblicitaria per smuovere la pro-loco, per significare invece un impiego vero della specificità locale nella generazione dell’evento. Ditemi un altro posto dove la gente, dopo che l’hai tenuta sveglia fino alle cinque e gli hai pisciato sotto casa, ti dice “core, me sa che è shtato bello ieri sera all’Auditorium” anziché “quand’è che ve levate tu e i tuoi amici smascelloni?” accarezzando la doppietta. Una città che nel tempo si è trasformata per assomigliare alla musica che ospita, sostituendo le strade con i tubi e i marciapiedi con pedane metalliche che fanno un rumore infernale quando ci passi sopra. Quindi ALL HAIL FOLIGNO, la città del core. Fine report, arrivederci all’edizione 2014.
No invece il report deve andare avanti, perché ho fatto altre foto e hanno bisogno di testo attorno. Ad aprire la serata del 27 sono stati i Chromb!; francesi, esordienti, zorniani, prog aggiornato al breakbeat, capacissimi. Molto bene nei momenti più foschi dove sembrano degli Zu da aperitivo o dei Magma da brunch, meno nelle parti pazzerelle zompettanti “siamo capaci di tutto” Mr. Bungle.
Freddo de legno; sta per piovere; tocca ai Deerhunter; piove. Tutti pensano all’unisono “ehi Bradford Cox è matto scosso e sicuramente riterrà noi responsabili dell’agente atmosferico”. Il senso di colpa nel pubblico è palpabile, tanto che quando cominciano a suonare i più deboli cedono, lasciano il portico e vanno a bagnarsi. L’esecuzione è comunque perfetta, i suoni un po’ meno. “Mo se incazza”. Infatti se incazza, e proprio nel bel mezzo dei suoi insulti ai fonici – BOM – salta l’impianto. Durante il buio ce ne stiamo tutti in mesto silenzio aspettandoci una sua ciga o risoluzioni più crudeli (tipo il nervo della bestemmia o lo spartichiappe). Invece accade il miracolo: lo sbilenco comincia a suonare la batteria in acustico, seguito poi dagli altri quattro che iniziano a sbattere pure loro. Un gesto simpatico e a suo modo benevolo. Il ritmo cresce e riparte l’amplificazione. Forse Shackleton aveva torto, forse esiste un paradiso dei cavalli.
Il concerto riprende con la fenomenale Earthquake, ma il suono resterà sempre un po’ monco. Pezzi esclusivamente da Halcyon Digest e Monomania, con quest’ultimo che ha tutto da guadagnare dalla dimensione live, come diventa chiaro nella canzone omonima che conclude la parte “canzoni” del concerto. Sì perché poi si lanciano nella mezz’ora di feedback (mezz’ora nel senso di trenta minuti) più sensata degli ultimi dieci anni (come se tenessi un archivio delle mezzore di feedback o come se avessi visto più di dodici concerti in vita mia), tanto che la maggior parte del pubblico rimane a godersi delle chitarre appoggiate agli amplificatori nonostante Shackleton abbia cominciato. Che gruppo della Madonna. E che carigo d’ansia.
Buccamo drendro: il secondo live di Shackleton riflette la sua dipartita dal tribalismo avvizzito degli inizi verso il nuovo stile pieno de roba, gonfio di synth arpeggioni PSICODELICO PIASCOLO PICCOLO, che unito all’acustica da palazzetto dello sport del retropalco dell’auditorium ha creato un bordello allucinante, a conferma l’escatologia equina presentata nel pomeriggio dall’uomo.
Pinch appoggia i vinili e l’igrometro impazzisce; tech-step e funky, pozzanghere ovunque, ad un certo punto mette pure Richie Hawtin, senonché all’apice della cattiveria se stufa e decide di suonare i pezzi jungle e hardcore di quando era fiolo → mani in aria come se c’eravamo. Andiamo a dormire stroncati dai reumatismi dopo uno dei migliori djset del festival.
Giorno Due – Venerdì 28 giugno 2013
È una bellissima giornata di novembre a Foligno e Vincenzo Vasi e Valeria Sturba presentano il loro ennesimo progetto fuori dalla grazia di Dio dal titolo Dervishi: il pubblico è disposto in mezzo ad un cerchio di 8 altoparlanti attraverso i quali il suono viene fatto ruotare grazie a un ciaffo che comandano loro. L’aspetto acustico è interessante, ma a stupire è la materia sonora messa in campo dai due che – come al solito – non ha alcun appiglio con il REALE. Aprono circoli di basso e violino; si inseriscono i theremin; entrano gli aggeggi; arrivano i vortici: Henri Pousseur, Aphex Twin arrangiato da Philip Glass (il concerto parte proprio con una citazione di Icct Hedral), la fonderia di Mosolov, il film di Resnais coi pittori fantasma e GLORIA GLORIA ALL’IPNOROSPO. Probabile miglior performance della serata, di sicuro quella che è arrivata più vicina al momento “porca troia”. Vasi è un vanto e sa mosse che noi non conosciamo.
Chi cazzo è Sven Kacirek? É la tipica perla in cui si incappa al Dancity. Marcantonio di due metri, percussionista coi diplomi, ha fatto uscire due dischi per la tedesca Pingipung (che da una settimana sto ascoltando svario) ma fa anche le cose serie coi coreografi. La sua musica occupa una zona equidistante tra Steve Reich, Four Tet e Glenn Kotche e dal vivo si avvale di vibrafono, campionatore e tutta una serie di oggetti da sbattere e strusciare, compresi sedia e pavimento. Non si tratta però di uno di quei performer-curiosità “diobò sta suonando le uova”, ma di una proposta sonora assolutamente autonoma dalle storielle sul processo. Non tutto il live è propriamente al fulmicotone, con momenti sacrificabili come quando abbozza una versione di Clapping Music di Reich in modalità one-man band; lo stile però è alto, con vette suggestive quando impiega i campioni dei musicisti kenioti con cui ha lavorato sul primo album.
Andy Stott è sicuramente tra gli act più attesi dell’intero festival, sembra perciò abbastanza strana la scelta di farlo suonare all’ora di cena; non è chiaro se si tratti di un esperimento audio-alimentare degli organizzatori del tipo “tiè pischellè, magnete sti bassi”, ma l’impressione è che la gestione della giornata sia stata un po’ azzoppata: Craig Richards bloccato nella perfida Albione, la pioggia che gela gli animi e impedisce l’utilizzo del cortile del Palazzo Candiotti, il programma spalmato su tre giorni invece che su due e le regole cabalistiche su dove si può entrare con il bicchiere di birra. Impermeabile a tutto ciò, Stott (vestito come un coordinatore regionale di Casa Pound) inizia un live che manda in risonanza ogni atomo dell’auditorium San Domenico, dentro il quale l’afro-vibro-dub di Luxury Problems suona avvolgente e inesorabile. La parola d’ordine è CADENZATO: ogni momento in cui ci si ritrova a dire “non sarà mai più CADENZATO di così” tocca a ricredersi per l’ingresso di un basso ancora più calpestante e CADENZATO. Nel nostro procedere come piccioni ci accorgiamo solo a posteriori delle virate acid, detroit e hardcore approntate dall’inglese; non si capisce bene come accada, ma di volta in volta ci si ritrova dentro una ibridazione diversa del suo suono con gli elementi rave più devianti degli anni ’90, senza che ciò appaia come un tributare ruffiano e didascalico. Grazie Andy che c’hai sciolto il muco.
Successivamente i dj-set di Trus’me nella zona bar e Salvatore Stallone in sostituzione a Richards, ma noi uscimmo a mangiar pannocchie.
Ci spostiamo al Serendipity. L’indoor è interamente dedicato agli italiani, ma per un mix di ritardi, scelte e stanchezza, non vedo/ricordo Dave Saved, Meze, Iamseife, Ayarcana e Deepalso, dei quali però mi sento comunque di dire “un set fresco, eclettico e mai banale, dedicato a quelli che guardano sempre all’estero incuranti della ricchezza della proposta di casa”. Ricordo però gli One Circle, trio composto da Lorenzo Senni, Vaghe Stelle e A:Ra, tre dei più importanti produttori di suoni italiani esistenti, con un gusto nella musica inversamente proporzionale a quello nel vestirsi. Per ovviare a quest’ultimo problema hanno ben pensato di inondare di strobo i loro live, cosa che solitamente azzera il mio senso critico, ma in questo caso non ce n’è alcun bisogno perché la performance è una bomba di beat incalzanti e distorti, bassi scoreggioni e synth esoterici (o sto dicendo così solo perché le strobo hanno azzerato il mio senso critico?). Dentro c’è quella giuntura primi anni novanta fra acid e IDM – Caustic Window/Gescom/Lego Feet – riletta inevitabilmente con Actress, Shed, i Salem e il post-noise negli occhi. Vedo le vostre caviglie e comunque vi rispetto: che sia vero, dunque, che la musica è capace di abbattere tutti i razzismi?
Fuori Claro Intelecto cerca di emanare un gradito tepore con un set denso ed elegante, pure rilassato volendo, in modo da dare un attimo di tregua prima che Robert Hood arrivi ad imporre la sua disciplina. EGLI indossa quella che sembra una tuta da lavoro (o da paintball, non è chiaro) e forse coloro che non sanno di cosa si tratta cominciano ad avere il giusto sentore che non sarà facile. Il live parte subito duro, spedito, metallico, privo di climax spicci e loop rassicuranti. Il gelido bastone del Signore percuote le nostre gambe e le voci non tardano ad arrivare | “fai qualcosa della tua vita ragazzo” | “qual’è il tuo apporto alla comunità?” | “stai sveglio, fuori non sarà così semplice” | “lo sai che il tuo cervello è la droga più potente che esista?” | “stai lavorando adeguatamente per raggiungere i tuoi obiettivi?” | “cosa lasci al mondo quando questa umile avventura sarà finita?”. Come Mosè con la Terra Promessa, il mio peccato di stanchezza mi impedisce di raggiungere la SUPERMENTE. Forse non è arrivato il mio giorno, ma sia ben chiaro che ci incontreremo ancora. Ogni volta una grande emozione: passione e la forza della lucidità.
Quella di Ben Klock è la chiusura sempliciotta che ci vuole, scarsamente imparentata con i suoi mix ben più sofisticati, ma funzionale a prolungare lo svago. Dura e pura Berghain techno; parte buia e ipnotica per poi trattenersi in una lunga inerzia fino alla gelida mattina. Sempliciotto quanto te pare, ma m’ha trattenuto quel tanto che basta per perdere navette, taxi, amici e sensibilità alle appendici. Ben Klock de merda.
Giorno Tre – Sabato 29 giugno 2013
Foligno ritrova miracolosamente il sole, ma ci pensano prontamente gli italiani Schroeders a rubarlo; come perfidi Grinch estivi (ci assomigliano pure fisicamente) i due trasformano un luminoso pomeriggio in un angosciante quadriglia per cappe aspiranti con il loro analog-drone-ultra-dub influenzato in egual misura dal ninja a capo del clan del piede, Mika Vainio e l’inamovibile ex-cancelliere tedesco. Bella roba, chiamateli a rovinare estati.
Trus’Me arriva e scaccia le tenebre, ricordandoci che questo è un orario aperitivo e noi dobbiamo consumare. Mette musica il cui concept è “tracce che assomigliano alla mia maglietta”, quindi house soul funk tutta baffi e vocine ma pure hi-nrg e electro (a un certo punto una Blue Monday che pare College), insomma dai, come la maglietta.
Aprono la serata finale all’auditorium i Lucky Dragons, a cui vogliamo bene da tanto tempo. In realtà è Lucky Dragons senza “i”, perché c’è solo Luke Fischbeck, accompagnato per l’occasione da Vasi e Sturba, collaborazione non annunciata ma che già de concetto prende bene. Bene anche non de concetto: le rigogliose iterazioni e microvariazioni dell’americano trovano nell’apporto dei due thereministi la giusta corposità per procedere quasi un’ora senza indurre noia alcuna.
Coinvolgenti e banoloni i francesi Zombie Zombie. Percussioni tribali con tastiere horror sopra. Voglio dire, ci sono due batterie e a me i gruppi con due batterie piacciono tutti (cit.), però ecco, come ve lo dico è, percussioni tribali con tastiere horror sopra. Ad ogni modo ampiamente adatti a preparare il cortile ai dj.
Non si sa bene cosa aspettarsi dalla prima mondiale del progetto che vede insieme il pianista jazz armeno Tigran Hamasyan e i step-peppers LV, in quanto le produzioni dei britannici non sono esattamente quella roba diafana e distesa che si associa a questo tipo di collaborazione. E infatti il risultato non assomiglia tanto a quegli incroci fra jazz e downtempo alla Nils Petter Molvaer, ma più a Mount Kimbie, Sepalcure, se possibile il Moritz von Oswald Trio nei momenti più dissipati, con delle botte de medio oriente qua e là. L’incontro non è sempre collimante, complice anche una acustica sventurata impastante che lascia il pianoforte troppo in secondo piano, ma quando la cosa funziona you will shit bricks. Forse dovrebbe uscire qualcosa non so quando per qualche etichetta. Vedemm’.
Che classe! Che eleganza Ghostpoet! Che musicisti! Che dizione! Damir Ivic!
Parlando di cose serie, per quanto mi riguarda la vera sorpresona del festival è Infinite Livez. Ninja Tunes, conoscevo di nome e niente più, poteva essere qualsiasi cosa. Il live inizia con i rumori della giungla e lui che imita il verso di qualche uccellaccio immaginario. Salta alla mente la puntata di Friends in cui Ross decide di condividere con il mondo le sue composizioni segrete per tastiera (obbligatorio: http://youtu.be/yLa8Br569gA). Per il mio gusto perverso è già capolavoro, ma poi la cosa comincia a prendere forma. Loop e campioni che non coincidono mai e lui che farfuglia come un homeless schizofrenico ubriaco di colluttorio. Se esiste una congiunzione possibile tra Outkast e Black Dice questa è Infinite Livez e il suo hobo-hop.
Da paura il secco digital-funk del tedesco Arttu, il quale in realtà sembra più scandinavo, sia di faccia che per le scompostezze skwee della sua musica, esposte qua in versione più diretta e techno.
Il dj-set degli LV è la svolta bass che serviva. Grime, funky e tutto-step da balzi e perdita di dignità. Tipo le mosse degli animali quando mette Animal Prints, la finta breakdance e le mani che spingono sotto la maglietta. In questa fiera di brutture quello che dà la merda a tutti è ancora una volta Vincenzo Vasi, che non solo è l’uomo che suona tutti gli strumenti e quello dall’età più indefinibile, ma anche il ballerino più imbecille del festival.
Causa impossibilità di abbandonare gli LV mi perdo completamente Metro Area e Mathew Jonson, ma tanto quelli so, che ve devo reportà? Mettiamo comunque “la disco-house stilosa e divertente che solo loro” per i primi e “techno potente e di qualità” per il secondo. Forse Mathew Jonson era meglio che lo vedevo.
A dire la verità anche di James Holden i ricordi sono appannati. Mi sovviene che a un certo punto ho pensato “ma questo pare Stefan Egger!” poi “ma questo pare Paul van Dyk!” poi “ma questa pare Astral Social Club!” poi botti, laser, Renata, astronavi, epicità. Set sconquassante, la gente è felice anche se non sa bene come ballare e le forze dell’ordine sono presissime dalle cavalcate di synth holdeniane. Intanto l’urina viene espulsa dove capita e le ambulanze portano via i corpi induriti di chi si è dimenticato una giacca a vento. Best visuals ever.
In definitiva, vette: Shackleton e i quintani, Deerhunter, Vasi (il concetto di), Robert Hood, Infinite Livez, LV, James Holden (penso). Le lodi sono già state ampiamente tessute; da persona che ha seguito ogni edizione del Dancity da quando era solo una parentesi all’interno di Rockin’ Umbria mi sento però di dire che mi è mancato quel momento porca troia che associo mentalmente al festival (negli anni, a caso: Stian Westerhus, Alva NotoBlixa Bargeld, Monolake, Morphosis, Aardvarck, Felix Kubin, Versatile Noise Troopers, Mouse on Mars) o quella lungimiranza per cui Andy Stott era in cartellone nel 2008 quando non era un cazzo di nessuno. Poi quella volta non è mai arrivato in aeroporto e vabè. Come Craig Richards st’anno. Che doveva suonare il giorno di Andy Stott…(Q33 NY) Arrivederci all’edizione 2014.