È la cronaca di un balzo artistico e di pubblico quella che riguarda Aldous Harding, da nome spendibile del cantautorato al femminile voce e acustica a volto da copertina della 4AD. Il training sull'espressività vocale, ma anche sulla scrittura, che è trascorso dal più rustico debutto omonimo, è tanto impressionante quanto abilmente "collocato" nei singoli di lancio, all'insegna di un'affettazione di schizofrenia (i cambi di timbro da cavernoso a Newsom-iano)/follia (la dizione ingrugnata) che era forse evitabile, insieme alla vagamente imbarazzante impostazione "spiritata" delle esibizioni live della neozelandese.
Anche in brani di grande eleganza, splendidamente arrangiati in compagnia di John Parish, come appunto "Imagining My Man" (che potrebbe venire da un "Who Needs Who" più acerbo) e "Horizon", il contrappunto tra una vaga trasandatezza melodica, non sempre spacciata per minimalismo in modo convincente, e l'"estremità" pur trattenuta (o semmai freudianamente repressa) delle interpretazioni vocali insinua il dubbio che tutta la gravità infusa in questo "Party" non corrisponda a chissà quale profondità di visione.
La sensazione di un'arte vista "attraverso lo specchio", costruita per assonanza, è implicita anche nei gradevoli e struggenti stornelli acustici alla Vashti Bunyan che costituiscono la parte più fedele all'esordio di Aldous ("I'm So Sorry"), con più di qualche ammiccamento lo-fi ("Living The Classics" sembra un estemporaneo travestimento in Elliott Smith, anche l'iniziale "Blend" sembra la risposta gotica alle slackerwriter).
In fondo, in "Party" si vive la straniante esperienza di un disco emozionante e vacuo al tempo stesso, il che porta a pensare semplicemente che questo secondo album non sia che un altro passo in una carriera più travagliata di quello che sembra.
...fonte: http://www.ondarock.it
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